MILANO/ROMA (Reuters) - L'Italia raggiunge i 2.000 miliardi di debito pubblico nel corso di una crisi di governo.
La coincidenza è eloquente: se si è giunti a tanto lo si deve anche all'instabilità politica che ha accompagnato la vita della Repubblica italiana. Negli anni Settanta e Ottanta, in cui il debito si è consolidato su alti livelli con relativo balzo della spesa per interessi, è stata tale che neppure una legislatura, seppur attraversata da più governi, è giunta al termine dei cinque anni.
Il succedersi di oltre 60 governi nei 66 anni di vita della Repubblica ha comportato, il più delle volte, mancanza di programmazione e poco tempo
per dare respiro alla politica economica e industriale. Al massimo, nei momenti di crisi acuta, è stato dato spazio a misure di emergenza.
Ultimo e acuto esempio, l'esperienza del governo Monti. I provvedimenti di emergenza, strutturali e non, non sono mancati né dal lato del contenimento dei costi né, soprattutto, da quello delle entrate. Un pacchetto di misure che ha avuto effetti visibili sul rapporto deficit/Pil anche se, a due settimane dalla fine del 2012, non si è ancora sicuri se si collocherà sotto la soglia di 3%. Non ci sono dubbi invece sul fatto che il rapporto debito/Pil balzerà oltre 126% (un rialzo che si riduce di tre punti percentuali al netto dei fondi destinati a Grecia, Efsf, Esm) da 120,7% dello scorso anno. E, secondo le stime del governo, vi rimarrà anche nel 2013.
Nemmeno la personalità italiana che più ha riscosso credibilità internazionale nel campo della politica economica e che molti in Europa e in Italia vorrebbero ancora al timone del Paese, è dunque riuscita a invertire la tendenza storica del debito pubblico.
E questo nonostante una gestione dei titoli di Stato condotta dal Tesoro con mano sicura ed efficacia in un anno di scadenze impegnative e mercato in fibrillazione.
Il trend, va detto, non è solo italiano. Per la zona euro si attende un debito/Pil a fine anno oltre il 90%, lontanissimo dal limite del 60% che i diciassette si erano dati al momento della nascita dell'euro.
E questo pur in presenza - alcuni dicono a causa - di politiche restrittive nell'intera area.
"L'elasticità della crescita rispetto alle strette fiscali in Italia e in molti altri paesi è stata molto più elevata delle attese" commenta Fedele de Novellis, economista di Ref Ricerche.
Eppure in passato c'è chi è riuscito a stabilizzare e a far scendere il rapporto debito/Pil. Nel decennio dal 1994 al 2004, in preparazione dell'entrata nell'euro e nei primi anni della moneta unica, il rapporto è calato progressivamente da quasi il 122% al 103% con un'accelerazione dopo il debutto dell'euro.
Nei primi anni dell'unione monetaria, infatti, con uno spread Btp/Bund nell'ordine dei 20 punti base si è realizzata la regola aurea per ridurre il debito: i tassi di interesse reali dei titoli di Stato erano inferiori al tasso reale di crescita dell'economia. Sono anche gli anni in cui si sarebbe potuto fare di più per il debito, ma l'Italia preferì assecondare la politica di Francia e Germania, tesa a sottolineare soprattutto l'impianto di Maastricht sul deficit.
In anni più recenti "il quadro è cambiato con la decisione della Germania di rifiutarsi di partecipare al rimborso del debito altrui: è venuta meno la garanzia implicita della Germania sull'Italia" sintetizza l'economista Marcello De Cecco.
RIDUZIONE DEBITO TENTATIVO IN SALITA MA OBBLIGATORIO
Gli attuali programmi elettorali, in modo molto diverso l'uno dall'altro, prevedono drastiche riduzioni del debito/Pil dai 400 miliardi promessi dal Pdl al parziale consolidamento evocato dal Movimento Cinque Stelle.
Nel concreto la via è molto impervia.
Dal lato delle entrate l'imposta sui patrimoni dei redditi molto elevati avrebbe un valore segnaletico in termini di volontà di redistribuzione, ma sarebbe molto meno efficace in termini di gettito.
"Non credo alla patrimoniale sui redditi altissimi, che farebbe scendere un po' il livello del debito ma poi il trend ripartirebbe come prima. E una patrimoniale più estesa provocherebbe la protesta sociale" commenta l'economista Massimo Baldini.
Resta sul tavolo, eredità delle trattative di questi mesi, un possibile accordo con la Svizzera per recuperare gettito fiscale dai capitali italiani là depositati. In questo caso l'importo potrebbe essere significativo, ma si potrebbero porre le condizioni per nuove evasioni.
Altra cosa sarebbe un programma di legislatura che porti a ridurre al minimo la differenza tra quanto accertato e quanto effettivamente recuperato: servirebbero modifiche legislative radicali per avvicinare il modello italiano a quello anglosassone o del nord Europa.
Passando alle privatizzazioni, la cessione dei gioielli di Stato - Eni, Enel, Snam, Terna - al di là di valutazioni sull'opportunità di uscire da società che hanno un ruolo strategico nella politica energetica nazionale, si confronta al momento con la crisi dei mercati e il brusco calo della capitalizzazione dei gruppi. Per le società ancora interamente pubbliche, poi, dalle Poste alla Rai e alle Fs, il problema sembra essere, oltre all'idea di servizio pubblico che svolgono, quello della dismissione in tempi brevi.
In tutti i programmi, poi, viene attribuito un solido ruolo alla cessione degli immobili pubblici.
A dire il vero gli ultimi anni sono però la plastica dimostrazione, a maggior ragione con il settore in piena crisi, di come sia facile fare seminari in via XX Settembre ma molto più difficile - lo ha evidenziato lo stesso Tesoro - alienare un patrimonio in gran parte occupato, distribuito tra Roma e gli enti territoriali, e in condizioni di manutenzione che ne rendono difficile la vendita.
Con questo scenario in salita, il ruolo della Cassa Depositi e Prestiti, già ampliatosi negli ultimi anni, è destinato a crescere ulteriormente. Quest'anno la Cdp si è fatta carico di ridurre il debito di quasi un punto di Pil con l'acquisizione di Fintecna, Sace e Simest e il ministro Grilli ha già previsto un suo intervento per l'acquisto degli immobili pubblici.
DOVEROSO NUOVO APPROCCIO PIU' ATTENTO A CRESCITA
Se si esclude di far calare il rapporto debito/Pil con altre dolorose misure di bilancio restrittive - più tasse e meno spesa - l'Italia ha oggi il dovere di lavorare maggiormente sul denominatore del rapporto, sapendo che molto dipenderà comunque dall'evoluzione della congiuntura internazionale.
Il 2012 ha visto il crollo dei consumi e il netto calo degli investimenti. Né per il prossimo anno sono attesi, a politiche invariate, grandi miglioramenti. Un quadro negativo che riguarderà anche buona parte della zona euro.
"La teoria delle due fasi - prima risparmi, poi cresci - ha fallito. Eppure è condivisa in tutta la zona euro, contro gli Stati Uniti che sono keynesiani e pensano siano gli investimenti a creare i risparmi" commenta De Cecco.
Oggi Roma, di fronte ai sostenitori delle riforme a oltranza in Europa e nel mondo finanziario, può vantare uno dei deficit più contenuti dell'area euro, un avanzo primario crescente e una drastica riforma delle pensioni.
Il punto partenza è difficile per le poche risorse disponibili e un potenziale di crescita ormai molto basso.
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