Roma 15 Settembre 2013 Corsera.it Studi e riflessioni per l'Enciclopedia Universale di Scienze Giuridiche a cura di Matteo Corsini
L'interpretazione in chiave soggettiva dell' autonomia patrimoniale nelle societa' di fatto con la sentenza della Suprema Corte di Cassazione n.1027 del 28 Gennaio 1993.
“Non deve dimenticarsi, però, che l'autonomia patrimoniale è stata anche ricostruita, con diversa linea logica, in chiave soggettiva, ipotizzandosi che, per effetto della stipulazione del contratto di società, si determini il trasferimento della titolarità dei beni conferiti dal patrimonio dei soci a quello della società, per cui a questo nuovo soggetto di diritto, diverso a terzo rispetto ai soci, debbano imputarsi i diritti e gli obblighi derivanti dall'attività sociale, ancorché i rapporti obbligatori intervengano tra la società ed i soci stessi, in base alle fasi evolutive del contratto sociale. Questa impostazione, che trova la pienezza espressiva nelle società di capitali, munite di personalità giuridica, non è estranea, però, anche alle società di persone, ancorché non fruenti di personalità giuridica. Il contratto di società non richiede forme speciali per il suo perfezionamento dunque una società può sorgere anche in base ad una mera intesa verbale o, addirittura, in forza di un semplice comportamento concludente, rebus ipsis et factis , purché idoneo a significare l’intenzione delle parti di dare vita all’accordo .
In presenza di questi presupposti e di altri di cui si tratterà nel prosieguo della presente riflessione, ci si trova di fronte alla figura giuridica della società c.d. di fatto.
Quest’ultima non è iscritta nel Registro delle imprese.
Se esercita attività non commerciale, sarà assoggettata alle norme che disciplinano le società semplici; nel caso in cui, invece, l’attività svolta sia di natura commerciale, si applicheranno le norme che regolano le società in nome collettivo irregolari, per cui tutti i soci risponderanno personalmente ed illimitatamente per le obbligazioni sociali e l’ente sarà assoggettabile a fallimento.
La societa' di fatto puo' costituirsi anche per svolgere un singolo affare, come, ad esempio la realizzazione di un complesso edilizio o l’acquisto di un terreno onde costruirvi appartamenti da vendere, dividendone proporzionalmente gli utili .
La più recente giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione ha precisato che “l’esistenza della società di fatto deve essere provata almeno in relazione a tutti gli elementi necessari a configurare la sussistenza di una società, cioè il fondo comune, l’attività comune, la partecipazione agli utili e alle perdite (c.d. affectio societatis), il vincolo di collaborazione tra i soci. E’, altresì, possibile desumere l’esistenza del rapporto sociale dai comportamenti tenuti nei confronti dei terzi da ciascuno dei soci nell’esercizio collettivo dell’impresa. L’onere della prova è di colui che il rapporto medesimo alleghi quale fatto costitutivo di una pretesa” .
Nei rapporti esterni, l’esistenza del vincolo sociale può desumersi dalla sua mera esteriorizzazione, mentre, in quelli interni, la società di fatto deve essere attestata (anche con prove orali e presunzioni), dimostrando l’esistenza di un fondo e di un’attività comune, della ripartizione degli utili e delle perdite e del vincolo di collaborazione tra i soci.
Il dibattito intorno alla soggettività giuridica o meno delle società di fatto è stato molto acceso nel corso degli anni e solo di recente sembra che dottrina e giurisprudenza siano pervenuti ad una posizione comune.
La dottrina e la giurisprudenza sostenevano, infatti, che l'autonomia patrimoniale delle società dovesse essere ricostruita in chiave oggettiva, per cui essa non significherebbe per i soci perdita della proprietà dei beni conferiti, ma assoggettamento di tali beni ad una forma di comproprietà diversa da quella regolata dagli artt. 1100 e ss. c.c., in quanto giustificata dal vincolo di destinazione che, per effetto del contratto sociale, grava sui beni comuni.
Da questa datata impostazione deriverebbe, pertanto, che le obbligazioni assunte nell'attività sociale si imputerebbero pur sempre alle persone dei soci, ma l'autonomia patrimoniale (ancorché limitata nella società di persone) imporrebbe che a rispondere essi siano chiamati prioritariamente con i beni conferiti nell’ente di fatto.
Negli anni più recenti, la pressoché unanime giurisprudenza ha ribaltato siffatto orientamento.
Fondamentale crocevia dell’inversione di rotta è rappresentato dalla sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 1027 del 28 gennaio 1993.
Essa così recita: “non deve dimenticarsi, però, che l'autonomia patrimoniale è stata anche ricostruita, con diversa linea logica, in chiave soggettiva, ipotizzandosi che, per effetto della stipulazione del contratto di società, si determini il trasferimento della titolarità dei beni conferiti dal patrimonio dei soci a quello della società, per cui a questo nuovo soggetto di diritto, diverso a terzo rispetto ai soci, debbano imputarsi i diritti e gli obblighi derivanti dall'attività sociale, ancorché i rapporti obbligatori intervengano tra la società ed i soci stessi, in base alle fasi evolutive del contratto sociale. Questa impostazione, che trova la pienezza espressiva nelle società di capitali, munite di personalità giuridica, non è estranea, però, anche alle società di persone, ancorché non fruenti di personalità giuridica.
Ed invero, la semplice negazione della personalità giuridica delle società di persone non è decisiva per avallare soluzioni contrarie dei medesimi problemi, dal momento che, anche l'autonomia patrimoniale imperfetta, che caratterizza le società di persone, può essere configurata in termini di alterità soggettiva del patrimonio comune.
Alla teoria tradizionale, quindi, in ordine alla posizione giuridica fondamentale degli enti non personificati (…), si contrappone una linea evolutiva diretta ad escludere la concentrazione della soggettività giuridica nel dualismo "persona fisica-persona giuridica" ed a superare il dogma della personalità giuridica, individuando soggetti collettivi o gruppi organizzati non personificati, qualificabili, a loro volta, come centri di imputazione, o punti di riferimento, di determinate situazioni giuridiche, il cui principale carattere distintivo si identifica nell'autonomia patrimoniale, ancorché imperfetta.
(…) A favore di questa impostazione, anche nei confronti delle società di persone irregolari, rette dalla disciplina della società semplice, depongono diverse disposizioni normative.
Basti ricordare l'art. 2266 1° comma c.c., con cui si stabilisce che la società acquista diritti ed assume obbligazioni per mezzo dei soci, attribuendo, inoltre, alla società in quanto tale capacità processuale attiva e passiva; basti ancora ricordare che, per l'art. 2254 c.c., il conferimento dei beni può avvenire "in proprietà", anche per la società semplice e, quindi, per le società commerciali rette dalla disciplina della società semplice; particolare rilievo assumono poi, proprio nel settore di indagine devoluto al giudizio di legittimità, gli artt. 2659 e 2839 (nel testo riformulato con la legge 27 febbraio 1985 n. 52), che considerano le società di persone parti a favore o contro le quali possono essere effettuate trascrizioni di acquisti immobiliari e iscrizioni di ipoteche; trascrizioni ed iscrizioni che presuppongono a favore e contro la società di persone, anche irregolare, gli effetti tipici di dette forme di pubblicità, notizia o costitutiva, inerenti ai negozi che ad esse adducano ed alla titolarità dei diritti conseguenti; nello stesso ordine di idee sono interpretabili le norme degli artt. 2254, 2255, 2256 e 2271, che sembrano attestare la distinzione soggettiva tra società e soci, così come la disciplina del fallimento delle società con soci illimitatamente responsabili, volta che viene disposta sia la pluralità e la distinzione delle dichiarazioni di fallimento (art. 147 R.D. 16 marzo 1942 n. 267), sia la distinzione delle masse attive e passive (art. 148 L.F.), sintomo del fatto che la distinzione dei patrimoni implica anche la distinzione soggettiva tra la società ed i soci.
(…) Se l'autonomia patrimoniale, pur limitata, della società di persone è indice di soggettività distinta da quella dei soci e si riflette nel particolare atteggiarsi della responsabilità verso i terzi della società e dei soci illimitatamente responsabili, l'individuazione del rapporto intersoggettivo deve altresì estendersi a quelle situazioni che il patrimonio nella titolarità della società determinano e, tra esse, il conferimento di beni, non esclusi i beni immobili per i quali la giurisprudenza di questa corte richiede la forma tipica del bene oggetto del conferimento stesso (Cass. 16/1/1984 n. 331; 26/6/1990 n. 6491). Quindi, anche la liquidazione di quota a seguito di recesso (che l'esigenza di continuità dell'impresa collettiva impone avvenga in denaro - art. 2289 c.c. -, ma che la volontà concorde del socio receduto e dei soci rimasti, potrebbero anche determinare in natura), che si traduce in un diritto di credito per entità corrispondente al valore pro-quota del patrimonio sociale, costituisce un credito nei confronti della società, e non direttamente dei soci, per il quale i soci sono sussidiariamente responsabili al pari di qualsiasi debito di impresa.
A diversa conclusione non può fare pervenire la tesi di dottrina (riferita al decesso del socio, ma le cui argomentazioni sono estensibili a tutte le ipotesi di scioglimento del rapporto limitatamente ad un socio), secondo cui il decesso di un socio, determinando l'accrescimento delle quote degli altri soci, individua, in questi ultimi, siccome debitori in proprio, i destinatari dell'azione di liquidazione della quota. Questa impostazione del problema non tiene conto del fatto che il patrimonio non appartiene per quota ai soci, come nella comunione, ma nella totalità alla società, sicché la richiesta di liquidazione deve essere a quest'ultima indirizzata, mentre la responsabilità dei soci rimasti assume rilievo sussidiario ex art. 2297 c.c..
Non si ritiene neppure fondata la tesi (accolta da Cass. sent. 23/5/1972 n. 1577) secondo cui l'autonomia patrimoniale è connessa solo ai rapporti tra società e terzi, non anche nei rapporti tra i soci, nel cui ambito dovrebbe essere inquadrata la fattispecie di liquidazione della quota.
Basti, in contrario, rilevare che ben difficilmente, ai fini della liquidazione della quota, il receduto potrebbe ancora considerarsi socio, e quindi legato da rapporti interni. E' logico, invece, ritenere che il socio receduto, nel momento in cui chiede la liquidazione della quota, sia terzo rispetto al rapporto sociale, così come terzo è il creditore particolare del socio che agisce per la liquidazione della quota del suo debitore (art. 2270, 2° comma, c.c.).
Si ritiene, in definitiva, di dovere riaffermare che la società, in quanto titolare di un patrimonio, è per ciò stesso soggetto di diritto, sicché ogni pretesa di natura economica deve essere esercitata nei confronti della società, per cui anche il socio receduto, in quanto terzo rispetto ad un rapporto sociale per lui sciolto, deve chiedere la liquidazione della quota alla società, escutendone se del caso il relativo patrimonio, con eventuale responsabilità sussidiaria dei soci residui”.
La successiva giurisprudenza della Suprema Corte si è espressa in linea con la succitata interpretazione: basti, al riguardo, esaminare le sentenze nn. 11956 del 1993, 3773 del 1994 e 5757 del 1998.
La decisione più recente, sull’argomento, risale all’1 aprile 2004, n. 6376.
Ivi si legge: “la prevalente e più recente giurisprudenza di questa corte - alla quale qui pienamente si aderisce - ha infatti chiaramente indicato che, essendo la società, anche ove abbia natura personale, pur sempre un soggetto di diritto, titolare di un patrimonio autonomo, è nei suoi confronti che devono essere promosse le azioni per la liquidazione della quota del socio uscente. Tali azioni, pertanto, non sono proponibili direttamente nei confronti dei singoli altri soci della medesima società, la cui responsabilità è solo sussidiaria, come per ogni debito sociale (cfr., in tal senso, Cass., sez. un., 26 aprile 2000, n. 291, Cass., 21 gennaio 2000, n. 642; Cass., 13 dicembre 1999, n. 13954; Cass., 11 febbraio 1998, n. 1403; e Cass., 10 giugno 1998, n. 5757)”.
In conclusione, quindi, la società di fatto è da considerarsi, a tutti gli effetti, per i motivi ampiamente esposti dalla sentenza della Suprema Corte del 1993 summenzionata, soggetto di diritto, come tale legittimato attivo e passivo nei procedimenti dinanzi ad organi giudiziari.
Da ciò consegue che il singolo socio della stessa, attesa la sua responsabilità solo sussidiaria per obblighi assunti dalla società, non gode di alcuna legittimazione processuale in ordine a giudizi aventi ad oggetto diritti e appunto obblighi della società di fatto.
Nel diritto privato l'autonomia patrimoniale è il grado di separazione del patrimonio di un soggetto di diritto, diverso da una persona fisica, rispetto a quello di altri soggetti e, in particolare, dei suoi associati, degli amministratori o del fondatore. Il patrimonio di quel soggetto è detto patrimonio autonomo.
L'autonomia patrimoniale si distingue in perfetta o imperfetta, secondo che sussista una insensibilità più o meno completa del patrimonio autonomo rispetto alle vicende che possano subire i patrimoni ad esso a vario titolo collegati. Ad esempio, l'autonomia patrimoniale delle società di persone è imperfetta, in quanto per i debiti sociali possono essere chiamati a rispondere anche gli stessi soci (o alcuni di essi, secondo il tipo di società). Diversamente le società di capitali possiedono un'autonomia patrimoniale perfetta, in quanto dei debiti sociali risponde solo ed esclusivamente la società con il suo patrimonio.
L'autonomia patrimoniale ha una funzione di garanzia a favore dei creditori dell'ente, in quanto permette di isolare le vicende del suo patrimonio da quelle del patrimonio personale dei suoi membri. Essa quindi adempie anche ad una funzione di compartimentazione dei rischi delle diverse attività economiche.

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